NIENTE SCHERMI FINO AI TRE ANNI

NIENTE SCHERMI FINO AI TRE ANNI

NIENTE SCHERMI FINO AI TRE ANNI

Ieri sera al’Imiberg, il dott. Alberto Pellai, parlando dell’utilizzo della tecnologia nei primi anni di vita, ha invitato a “spegnere il virtuale per riaccendere il reale”, perché il bambino per imparare ha bisogno della complessità dell’esperienza.

Il dott. Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva e scrittore di successo, ieri sera ospite alla Scuola Imiberg ha risposto alle domande di insegnanti e genitori sulla difficile questione dell’utilizzo della tecnologia nei primi anni di vita. In particolare il dott. Pellai si è soffermato sull’effetto che gli schermi hanno sui bambini più piccoli: un effetto di iper-stimolazione che li attrae, ma che non sanno gestire.

La conferenza è durata quasi due ore, che però sono volate con ritmo incalzante grazie alle domande preparate dagli organizzatori (le maestre della scuola dell’infanzia con sezione primavera Imiberg, del micronido La banda degli amici e del nido Fili di seta), alle domande finali dei genitori e allo stile semplice e diretto di Pellai.

I temi toccati sono stati molti, questioni sollevate da chi tutti i giorni osserva da vicino il comportamento dei bambini. L’idea di invitare il dott. Pellai, come ha spiegato Nicoletta Galizzi direttrice dell’Imiberg, “è nata guardando gli alunni e parlando con i genitori, per riflettere sul nostro modo di stare con i bambini”.

Innanzitutto il dott. Pellai ha chiarito cosa si intende quando si parla di “virtuale”, di quali oggetti si tratta, specificando che a suo modo di vedere il punto più problematico sono gli schermi, tutti gli schermi: smartphone, tv, pc… Perché gli schermi con il loro mix di immagini in movimento e suoni sono in grado di ingaggiare la parte emotiva del cervello e di mandare i bambini in una specie di trance, spegnendo tutto quello che c’è intorno. Ma il bambino, per apprendere, ha bisogno di essere immerso in quello che sta facendo, mettendo insieme le informazioni che tutti i sensi raccolgono e utilizzando diversi tipologie di memoria: motoria, visiva, emotiva… la mente dei bambini “operazionalizza” le cose da tanti punti di vista. Inoltre il bambino ha bisogno di ripetere e rielaborare per “fare sue” le cose, pratica che risulta molto difficile davanti alla velocità e alla reattività che gli schermi propongono. Per questo pur essendo esposti a maggiori stimoli verbali, davanti agli schermi i bambini imparano meno parole, perché non hanno il tempo di assimilarle.

Lo schermo, inoltre, impoverisce le relazioni, le appiattisce. Per calmare un bambino lo schermo funziona solo apparentemente, certo il piccolo smette subito di piangere, ma è come dargli un “ciuccio elettronico” non è una risposta all’esigenza di cui il pianto è segno. Quando però al bambino si toglie lo schermo il problema ritorna, più grave di prima. Gli schermi infatti “spengono le dimensioni che tengono la vita accesa”. La proposta dello scrittore è allora: “fino ai tre anni, schermi zero; dai tre ai sei anni, solo schermi finalizzati”.

La questione, ha sottolineato Pellai rispondendo alle domande seguenti, sta in come funziona la mente dei bambini. Il loro cervello è come una collina da scalare sulla quale non sono stati tracciati sentieri e i sentieri vengono tracciati dalle esperienze che si fanno, se gli stimoli che la mente del bambino riceve sono quelli dello schermo, che sono tanti ma “piatti” non verranno tracciati tutti i sentieri necessari per il completo e corretto utilizzo della mente stessa. Per cambiare esempio, il cervello dei bambini è come un blocco di marmo grezzo, senza forma ma con infinite potenzialità, e fino ai sette anni l’educatore (genitore, insegnante…) ne è il principale scultore. Il lavoro di scolpire la mente non può essere lasciato agli schermi.

Alla domanda diretta sulle conseguenze dell’uso della tecnologia nei primi anni di vita la risposta è che, per tutto quanto detto sopra, il sistematico utilizzo di schermi crea ritardi nell’apprendimento. In particolare a livello linguistico, ma anche a livello motorio, perché se stai davanti allo schermo non ti muovi nell’ambiente e per l’apprendimento il bambino ha bisogno di un rapporto fisico/motorio con la realtà, per accendere le giuste reti neurali.

E quando un’abitudine diventa una dipendenza? Quando lo schermo è l’unico modo. Ad esempio se il bambino mangia solo guardando i cartoni e senza la tv non inghiottisce nulla questa è già una dipendenza, perché si è perso il controllo della situazione, è lo schermo che controlla il comportamento. Che però è ben diverso dall’avere una ritualità definita, perché le routine invece fanno bene ai bambini, insegnano che c’è un inizio e una fine.

Da questo punto di vista le regole possono essere uno strumento formidabile, ma devono essere “poche, molto buone e condivise da entrambi i genitori”. Inoltre il bambino può essere compagno nell’applicazione delle regole: “vieni a prendere il telecomando e spegni tu la tv”.

Le domande sono state anche molto pratiche: “quanti e quali cartoni animati?” Dai tre ai sei anni, dai 30 ai 60 minuti al giorno, meglio se spezzati; prima niente. Con spazio per le eccezioni: la “serata cinema” in famiglia diventa un’esperienza che attiva dinamiche relazionali e affettive importanti, però bisogna osservare se il bambino riesce a seguire una narrazione lunga, questo è infatti un indicatore del livello di sviluppo. La narrazione è poi anche un importante criterio di scelta dei cartoni animati, esistono infatti due grandi categorie di cartoni, quelli che raccontano una storia e quelli di azione. I cartoni che raccontano una storia (“Heidi”, per esempio) sono quelli che hanno una narrazione che si sviluppa puntata dopo puntata e che il bambino può seguire nel tempo, seguendo le vicende dei personaggi. Mentre i cartoni di azione hanno sempre la stessa struttura che si ripete ogni volta, che puntano sull’azione per intrattenere iper attivando i bambini.

La domanda finale è quindi sul ruolo degli adulti: “cosa significa accendere il reale?” Per il dott. Pellai la parola chiave è una: corpo. Tutto quello che fa bene al bambino passa attraverso il suo corpo, la sua intelligenza passa da lì, è senso-motoria. In questo senso giocare insieme è il mestiere e la cosa giusta per i bambini, loro infatti si “perdono” dentro queste attività e, per una sorta di “saggezza automatica” che sta dentro a tutti i genitori, a nessuno viene in mente di mettere dei limiti di tempo per il secchiello e la paletta o per la palla, come giustamente si fa per i videogiochi e per gli schermi in generale.